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  • 5 dicembre 2025 | SCAFFALE: I RACCONTI DEL NATALE IN LANGA
  • 4 dicembre 2025 | SE CUNEO SURCLASSA TORINO
  • 29 novembre 2025 | IL PANETTONE PIEMONTESE HA PIÙ DI UN SECOLO DI VITA
  • 28 novembre 2025 | SCAFFALE: L’ UOMO DEI PRODIGI DI GRANDE E MANERA
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  • In Piemonte non c’ è il mare, ma le acciughe sì

    6 dicembre 2025 • CINQUE SENSI • 20756

    acciughe

    Non è la trota, neppure le carpa e tanto meno la tinca: il pesce tipico del Piemonte è senza dubbio l’acciuga.

    Piccola ma polposa, dal sapore intenso e inconfondibile è il pesce più presente sulla tavola della nostra regione. Bagna caoda, acciughe al verde, peperoni al forno con salsa d’acciughe, topinambur con acciughe e pomodori, fiori di zucchine farcite con salmerino e salsa di bagna caoda, trote con salsa di acciughe, sono solo alcuni dei piatti tipici, ma perfino l’ insalata Nizzarda non esisterebbe se l’acciuga non avesse saltato le Alpi e non facesse parte, da secoli, del nostro patrimonio culinario.

    Ma visto che in Piemonte non c’è il mare, come ha potuto questo meraviglioso pesce azzurro contaminare in maniera così radicata e profonda la nostra cucina? Le origini sono davvero lontane e le ipotesi addirittura fantasiose. Alcuni sostengono che le acciughe siano apparse in Piemonte al seguito dei Saraceni che, dopo aver messo a ferro e fuoco la Provenza, continuarono a far razzia nelle valli piemontesi; alcuni di loro però, stufi di battaglie e sangue, decisero di stabilirsi nei paesini montani e introdussero l’uso delle acciughe che, ben conservate sotto sale, erano un ottimo approvvigionamento per i lunghi mesi invernali.

    Ma la teoria più accreditata, che ha dato il via ad alcune belle pagine letterarie, è ben più suggestiva, parla di contrabbando. Contrabbando di sale. Un alimento prezioso e, per molto tempo, merce rara per la nostra regione. Si parla di tre, forse quattro secoli fa: epoca in cui il sale veniva prodotto a Salon de Provence, e gravato da altissime tasse doganali. Veniva quindi trasportato in barili e venduto in tutto il nostro territorio.

    Non ci è dato sapere chi fu il primo contrabbandiere che ebbe l’idea di coprire il sale con alcuni strati di acciughe, ma siamo sicuri che, visto che le acciughe erano molto apprezzate e si vendevano senza difficoltà, ben presto questo tipo di commercio, meno rischioso e egualmente redditizio, prese il sopravvento.

    La via del sale si snodava dalle coste francesi passando per Sanremo, Oneglia per poi salire a nord fino a superare il col di Nava. E’ qui che l’acciuga fa il suo salto. Scende poi verso Limone Piemonte e si dirige verso Ceva, Montezemolo e ancora verso Cuneo fino ad arrivare a Dronero, all’imbocco della Val Maira.

    Dronero è la patria degli acciugai (anciuè in dialetto piemontese). Nel lungo periodo freddo, di riposo dal lavoro dei campi, il capofamiglia partiva, andava in Liguria e comperava le acciughe, gli altri componenti della famiglia lo raggiungevano a trattative concluse, con i caruss, caratteristici carretti costruiti in valle, molto leggeri ma robusti e quasi sempre dipinti d’azzurro. Caricavano i barili di acciughe e giravano poi in tutta la regione cercando acquirenti. Sovente si spingevano fino in Lombardia, e in Emilia.

    Era un lavoro duro, ogni acciugaio poteva percorrere anche più di trenta chilometri al giorno, spesso il pranzo e la cena erano un paio di acciughe, scrollate dal sale e infilate dentro un tozzo di pane. Molte volte l’attività non portava grandi guadagni, ma consentiva, a chi la praticava, di non pesare sulla famiglia: per qualche mese c’era una bocca in meno da sfamare.

    Per alcuni, fu invece l’inizio della propria fortuna. I più bravi, ma anche scaltri e abili, fondarono dei veri imperi economici e industrie dedite alla conservazione del pesce. Negli anni ’60 la maggior parte degli acciugai ha abbandonato le montagne e si è trasferita in pianura, continuando il commercio con mezzi a motore. Ancora oggi è possibile trovare, nei mercati rionali o di paese, venditori di acciughe provenienti dalla Val Maira.

    E per celebrare l’acciuga, proponiamo una ricetta della nostra regione, originale e poco conosciuta, ma particolarmente appetitosa:

    Lasagne con salsa d’acciughe:

    Ingredienti per la pasta – 500 gr. di farina, 4 uova, un cucchiaio d’olio extra vergine d’oliva, un pizzico di sale.

    Ingredienti per la salsa – 8 acciughe sotto sale, 3 spicchi d’aglio, 1bouquet garnì (rosmarino, salvia e alloro legati assieme), 60 gr. di burro, 50 gr. di parmigiano reggiano grattugiato, olio extravergine d’oliva, sale e pepe nero.

    Disponete la farina a fontana sul piano lavoro, aprite al centro le uova e unite un cucchiaio d’olio extra vergine d’oliva. Impastate fino a ottenere una pasta soda e omogenea. Stendetela quindi in una sfoglia sottile e tagliatela in lasagne larghe circa 3 cm e lunghe 12 cm. Stendetele via via su un canovaccio infarinato.

    Dissalate le acciughe sotto l’acqua corrente, apritele ed eliminate la lisca e la coda. Scaldate in un tegame 40 gr. di burro unito a 5 cucchiai d’olio extra vergine d’oliva, unite il bouquet garnì, gli spicchi d’aglio schiacciati e lasciate insaporire. Unite quindi i filetti d’acciuga ben asciutti e fateli sciogliere a fuoco basso, nel frattempo eliminate l’aglio e gli aromi.

    Lessate le lasagne in abbondante acqua bollente e leggermente salata, scolatele molto al dente, lasciandole umide.

    Conditele a stati in una pirofila alternando la pasta con la salsa d’acciuga, il parmigiano e una macinata di pepe. Cospargete infine con il burro rimasto tagliato a fiocchetti e abbondante parmigiano, gratinate in forno già caldo a 190° per una decina di minuti. Buon appetito!

    Patrizia Durante.

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  • SCAFFALE: I RACCONTI DEL NATALE IN LANGA

    5 dicembre 2025 • LUOGHI E LIBRI • 95

    Cop_Natale_Langa

    Storie che parlano di ritorni alle radici, memorie familiari, nostalgia e piccoli miracoli quotidiani. Quattordici racconti che, come un coro di voci, percorrono la stessa terra da prospettive diverse ed esplorano paesaggi geografici e interiori, il fluire del tempo, i mutamenti sociali, la dimensione ancestrale del mondo contadino con le sue austere regole e i suoi tempi,  intrecciando i legami umani con l’atmosfera tipica delle feste.

    Perché nelle Langhe il Natale non è tanto una festa: è fatto di piccoli gesti e rituali semplici, regali modesti, malinconia per le trasformazioni del tempo e degli spazi, momento di bellezza imperfetta e affetto genuino. Il Natale come riconciliazione e riscoperta di sé, attraverso la forza di personaggi segnati dal destino e la vivida rappresentazione di vite che si rinnovano. Il linguaggio è ricco di dettagli sensoriali e di immagini, le scritture che alternano narrazione realistica e visioni poetiche, valorizzando il dialetto e la memoria storica. Lo stile mescola toni lirici e una prosa coinvolgente, capace di fare della tradizione locale un’esperienza universale e suggestiva, in perfetta sintonia con la migliore letteratura natalizia.

    Come spiega il curatore Luca Borioni, «gli autori di questa raccolta si muovono tra vigne e cortili, tra cascine e memorie. Ognuno di loro restituisce una Langa personale, ma un po’ tutti convergono sul sentimento delle radici».

    Dalla prefazione di Giuliana Cirio scopriamo che «Natale in Langa è un’antologia di racconti che parlano la lingua della comunità, della memoria, della condivisione. Ogni storia è un frammento di vita, un piccolo dono d’inverno che scalda il cuore e ci ricorda quanto la nostra terra sia ricca non solo di eccellenze enogastronomiche e bellezze paesaggistiche, ma anche di cultura, creatività e senso di appartenenza».

    L’antologia si chiude con un testo che è un omaggio al presepe vivente di Dogliani, una rievocazione popolare che anima il borgo medioevale con circa 350 figuranti in costume, unendo tradizione e comunità.

    NATALE IN LANGA

    a cura di LUCA BORIONI

    NEOS EDIZIONI

    14 euro

     

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  • SE CUNEO SURCLASSA TORINO

    4 dicembre 2025 • COSE NOSTRE • 134

    inalpiarena

    Negli ultimi giorni due eventi hanno catapultato il Piemonte al centro dell’attenzione, non soltanto italiana. Il successo straordinario (e riconosciuto da tutti) dell’organizzazione e del coinvolgimento del territorio per le ATP Finals. E l’assegnazione delle Stelle Michelin ai ristoranti italiani.

    Entrambi questi eventi portano la firma di Cuneo e non quella del capoluogo regionale, Torino.

    E mi spiego. Le ATP Finals si sono svolte all’Inalpi Arena. Cioè in un impianto che porta il nome-sponsor di un’azienda della Provincia Granda (del resto come il precedente PalaAlpitour).

    Nell’elogiare la lungimiranza, la bravura, la tenacia dei fratelli Invernizzi, proprietari di Inalpi azienda di latte in polvere e formaggi di Moretta (Cuneo), da torinese mi domando: possibile che il tessuto industriale della città non abbia saputo trovare, in questi anni, una realtà in grado di dare il nome al più importante luogo di sport e spettacoli di Torino? Lunga vita all’Inalpi Arena quindi, però smettiamola con la solita lagna retorica subalpina del “ma qui ci portano via tutto….”

    La città di Alba e le Langhe hanno conquistato un paio di Tre Stelle Michelin, massimo riconoscimento della prestigiosa guida francese.

    A Torino nemmeno un “tre stelle”, ma nemmeno un “due stelle”, la conferma dei soliti, e zero novità.

    Si può discutere dell’importanza di questi riconoscimenti, ma sta di fatto, che danno il segnale che…qualcosa qui non va.

    I Torinesi sono sempre pronti fare confronti con Milano. Ebbene, in questo settore il capoluogo lombardo vanta 18 stelle (tredici ristoranti con una stella, quattro con due stelle, uno con tre). Torino ne ha solo 9, la metà, e tutti con una stella. Oltre a indicare un’ottima cucina, una stella genera circa 805mila euro di indotto per il territorio locale, che salgono a 2,4 milioni per un due stelle e oltre 6,5 per tre stelle. Fate un po’ di calcoli.

    Cuneo surclassa Torino? Beh, fate un po’ voi…

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  • IL PANETTONE PIEMONTESE HA PIÙ DI UN SECOLO DI VITA

    29 novembre 2025 • CINQUE SENSI • 3675

    galuppanettone

    Il panettone basso e largo, tipicamente piemontese, ha già superato i 100 anni. Fu inventato, infatti, da Pietro Ferrua nella sua pasticceria di via Del Pino a Pinerolo. Originario di Dogliani (Cuneo) aveva in mente di  fare un prodotto diverso dal classico panettone milanese e inventò una forma nuova, più bassa, più larga e ricoperta con glassa di nocciole tostate piemontesi, mandorle e pezzettini di zucchero.

    “A le propi galup” disse la moglie Regina, assaggiandolo per la prima volta. E lì nacque il nome Galup che in dialetto significa ghiotto, prelibato.

    Fu subito un successo. Il panettone basso e largo incontrò immediatamente i favori del pubblico, soprattutto quello locale, pinerolese, torinese e in parte della provincia di Cuneo. Ma è soltanto grazie a un volto famoso, l’ immagine della piemontesità, il comico Erminio Macario, scelto come testimonial per gli spot televisivi, che la fama del Galup uscì dai confini regionali e conquistò l’ Italia intera. Il suo slogan “Galup la parte alta del panettone” diventò un refrain di successo.

    Con il passare degli anni  Pietro Ferrua passa la mano e cede la sua pasticceria alla Galup, industria dolciaria con sede sempre a Pinerolo. E oggi come cento anni fa la produzione del panettone basso e largo continua con lo stesso metodo, con i medesimi ingredienti

    In queste settimane prenatalizie la produzione del panettone basso e largo prosegue a ritmi frenetici: nello stabilimento di Pinerolo ne vengono sfornati 10-15mila al giorno. Per arrivare sulle nostre tavole, in varie declinazioni di gusti (cioccolato e pere, frutti di bosco, ecc.), ma sempre gustoso e “galup” per addolcire i nostri brindisi natalizi. Oggi come più di un secolo di anni fa.

     

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  • SCAFFALE: L’ UOMO DEI PRODIGI DI GRANDE E MANERA

    28 novembre 2025 • LUOGHI E LIBRI • 191

    images - 2025-11-26T083927.814

    La vita di Gustavo Rol nei ricordi del suo medico personale. Il sottotitolo del libro sul grande e discusso personaggio torinese svela, fin dall’inizio, il punto di vista, dichiarato, degli autori.

    Un punto di vista assai vicino e intimo: Pier Giorgio Manera è vissuto accanto a Rol che lo considerava come un figlio. Ne ha condiviso gioie e dolori, successi e amarezze, fragilità e virtù. Ne emerge un ritratto nuovo, imprevedibile, di uno dei personaggi più controversi e misteriosi del Novecento italiano, un maestro illuminato capace di affascinare politici, artisti, filosofi, scienziati, personaggi famosi come Fellini,De Gaulle e Einstein. Ma anche gente comune e sconosciuta. Non si considerava un medium ma diceva dì avere accesso a realtà invisibili e a dimensioni che la scienza non riuscirà mai a spiegare. E non mancarono anche ì suoi detrattori che lo consideravano alla stregua di un illusionista.

    Il medico Manera e lo scrittore Carlo Grande (che non ha mai conosciuto Rol) dialogano sui grandi misteri della vita e della morte, sullo spirito religioso e sulla laicità del pensiero, seguendo il percorso terreno di Rol, usando quel personaggio torinese, colto e raffinato, come guidatore nel mondo dell’ incredibile.

     

    PIER GIORGIO MANERA CARLO GRANDE

    L’ UOMO DEI PRODIGI

    PIEMME EDITORE

    15 euro

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  • LUCI DI NATALE GIA’ IN AGOSTO?

    27 novembre 2025 • COSE NOSTRE • 148

    GIAVENOLUCINATALE

    Non credo di averlo notato soltanto io. Con l’arrivo di novembre, le luci natalizie hanno iniziato a comparire nelle strade, i centri commerciali sono già stracolmi di decorazioni e, incredibilmente, molte persone stanno pensando a come addobbare le proprie case.  Rispetto all’anno scorso il desiderio di festeggiare è arrivato decisamente in anticipo, come una sorta di riflesso collettivo che va oltre la tradizione. Ma perché?

     Secondo gli esperti di sociologia, le ragioni sono molteplici. Spesso il Natale rappresenta una fuga dalle difficoltà della vita quotidiana: il processo di decorare la casa e di prepararsi al Natale diventa così un atto simbolico, che aiuta a distogliere la mente dai problemi e a concentrarsi su ciò che è positivo.

     I social media continuano ad avere un impatto enorme su come viviamo il Natale. Rispetto all’anno scorso, nel 2025 è aumentata la produzione di contenuti natalizi social, già dal mese di ottobre. Le piattaforme come Instagram, TikTok e Facebook sono invase da decorazioni, idee per regali e tutorial per realizzare l’albero perfetto, e questo fenomeno ha spinto molte persone a “iniziare prima”. Le aziende, inoltre, sono state particolarmente astute nel lanciare promozioni natalizie anticipate

     Non si può ignorare il fatto che l’anticipazione del Natale ha anche un lato economico. Il mercato delle decorazioni natalizie è un business in continua crescita, alimentato dal desiderio di rinnovare e di aggiungere nuovi elementi ogni anno. Le aziende di decorazioni, abbigliamento e regali spesso spingono l’acquisto anticipato con promozioni speciali e campagne pubblicitarie. La pressione commerciale, quindi, gioca un ruolo fondamentale nel far sì che il Natale arrivi sempre prima nelle nostre case.

     Dai, che così facendo, arriveremo a cominciare a pensare al Natale appena tornati dalle vacanze. Che tristezza. A costo di sembrare all’antica. Io metterò le decorazioni, farò l’albero e il presepe soltanto l’ 8 dicembre. Non prima!

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  • CIBO AVANZATO AL RISTORANTE? PORTIAMOLO A CASA

    22 novembre 2025 • CINQUE SENSI • 3255

    FOOD DOGGY BAG

    “Hai gli occhi più grandi della bocca” diceva mia mamma per sottolineare la mia golosità. La frase mi è tornata in mente l’ altra sera quando ho ordinato una frittura di pesce: era buonissima, ma – essendo sazio –  ne ho avanzata più di metà nel piatto. Mia moglie, con candore, ha chiesto al cameriere di metterla in un apposito contenitore e l’ ha portata a casa. L’ abbiamo gradita il giorno dopo.

    Chiamatela “doggy bag” oppure “food bag”, non importa. E’ una moda esotica da imparare e importare in Italia, dove peraltro già c’ è “buta stupa”: la possibilità di portarsi a casa la bottiglia di vino, magari anche di pregio, avanzata al ristorante.

    Da noi c’è anche molta ritrosia nell’ approfittare della possibilità di portarsi a casa il cibo pagato e avanzato al ristorante. Ci vergogniamo.  Eppure i dati sugli sprechi alimentari sono impressionanti. Nel solo Piemonte più di 370mila tonnellate di cibo finiscono ogni anno dallo scaffale del supermercato o dal tavolo del ristorante direttamente nell’ immondizia. Un dato spaventoso. In Italia lo spreco alimentare vale circa 300-400 euro a famiglia, ogni anno.

    C’ è  una petizione per rendere obbligatoria la “food bag”, la scatola che il ristoratore dovrebbe consegnare al cliente per portare a casa il cibo pagato e non consumato.  Aderiamo alla raccolta firme  su “change.org”, ma soprattutto impariamo a chiedere la “food bag” al ristorante. E’ un nostro diritto, ma anche un modo per rispettare il cibo e l’ ambiente.

     

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  • GIROVAGANDO: RIALE E LA VAL FORMAZZA

    21 novembre 2025 • LUOGHI E LIBRI • 2946

    cascata Toce_Riale

    Ripartire da una camminata all’aria aperta o da un’escursione in bicicletta o in e-bike per scoprire gli innumerevoli tesori della natura. Da una corsa in alta montagna per provare a superare i propri limiti o da una giornata in pieno relax tra cascate, sentieri e laghi, degustando i sapori intensi del territorio.

    Il borgo di Riale, in alta Val Formazza nell’estremo nord del Piemonte, a pochi chilometri dalla Svizzera, è la meta ideale per fare tutto questo e ancora di più. Questa piccola località, a 1780 metri d’altitudine, custodisce un inestimabile patrimonio naturalistico, culturale e gastronomico, destinazione perfetta per un soggiorno in cui unire alle emozioni adrenaliniche dell’alta montagna, il relax di un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato.

    Da sempre votato allo sport in tutte le stagioni, il borgo di Riale si prepara alla primavera – estate con alcuni appuntamenti da non perdere.

    Ma lo sport a Riale vuole anche dire inerpicarsi a piedi per gli innumerevoli sentieri di montagna alla scoperta di scorci suggestivi e inaspettati, avventurarsi in bicicletta per il nuovissimo tracciato che da Riale porta in Svizzera, in Val Bedretto e Val Maggia, attraverso il Passo San Giacomo, oppure percorrere gli itinerari più avventurosi in sella alle e-bike con pedalata assistita per provare emozioni speciali in tutta sicurezza.

    Qualunque sia il mezzo scelto, la parola d’ordine è “esplorare”. Circondata da ghiacciai, corsi d’acqua e numerosi laghi alpini, Riale è il punto di partenza per escursioni alla scoperta dei panorami montani circostanti. Ricchissima di specchi d’acqua, molti bacini naturali si incontrano superati i 2000 metri d’altitudine, mentre a bassa quota, la spettacolare diga di Morasco serve come bacino per la Cascata del Toce e fornisce acqua per la produzione di energia elettrica a tutta la Valle. Tra le numerose interessanti mete della zona, ideali per un’escursione, la cima Arbola (3.300), teatro della prima risalita con gli sci ai piedi documentata in Italia a opera di 11 formazzini nei primi anni del ‘900, l’itinerario dei laghi del Boden, un circuito ad anello che tocca i due omonimi laghi e quello Kastel, sede del più grande giardino botanico spontaneo d’Europa e il passo alpino del Gries, uno dei più antichi d’Italia, percorso già nel Medioevo per trasportare le merci da Milano a Berna e, nel 1852,  attraversato dal compositore tedesco Richard Wagner. Senza dimenticare che nelle vette che circondano il borgo si trova uno dei giardini botanici naturali più grandi d’Italia che in queste stagioni propone un’infinita varietà di fiori, profumi e colori.  Vera e propria eccellenza del territorio è però l’imponente Cascata del Toce, che con i suoi quasi 150 metri è tra le cascate con il salto più alto d’Europa. Particolarmente affascinanti da visitare sono, poi, i numerosi insediamenti Walser ancora presenti in zona: una popolazione di origine vallese che nel 1200 si avventurò oltre la Svizzera per colonizzare questo lembo di terra. Una cultura molto particolare che influenza ancora tradizioni e costumi del territorio.

    Altra grande eccellenza del territorio è la cucina. Il tesoro gastronomico di Riale e della Val Formazza è il Bettelmatt, formaggio a pasta semi cotta che necessita di una breve stagionatura. Si tratta di uno dei più rari formaggi italiani, definito “eroico” perché prodotto esclusivamente da otto produttori in sette alpeggi sopra i 2.000 metri nei mesi di luglio e agosto, per una produzione di nicchia che si aggira intorno alle 5.000 forme l’anno.

    Oltre al Bettelmatt, da alcuni considerato “la rolls royce dei formaggi” per la sua scarsa disponibilità che lo rende estremamente ambito e ricercato, i piatti che si possono gustare a Riale sono quelli della tradizione Walser, tramandati ancora oggi da Matteo Sormani, chef “illuminato” della Locanda Walser Schtuba che sta recuperando le antiche ricette (una cucina “povera” che impiegava le poche materie prime del territorio) e le propone in un perfetto connubio tra innovazione e tradizione.

     

     

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  • QUEI CIMITERI COSI’ DESERTI

    20 novembre 2025 • COSE NOSTRE • 180

    cimitero

    Nei giorni solenni delle Ricorrenze dei Santi e dei Morti mi è capitato di visitare alcuni cimiteri, nel Torinese e in provincia di Cuneo. L’occasione per portare un fiore e per dire una preghiera sulle tombe dei miei cari. Sono rimasto colpito, però, nel vedere i camposanti semivuoti, per non dire deserti. Per la carità, tutti in ordine, puliti e abbelliti con un universo di fiori. Ma ovunque, c’erano pochissime persone fra i vialetti e le tombe.

    Ricordo quand’ero bambino e accompagnavo i miei genitori al cimitero. La visita durava ore e ore. Incontravano un sacco di parenti e amici, e tutti si fermavano a parlare e a dire un Requiem Aeternam, quasi su ogni tomba : “Trovo più persone in queste ricorrenze, che non a Pasqua o a Natale” commentava mio papà. Per non parlare del traffico che c’era di fronte ai camposanti: vigili ovunque e parcheggi intasati.

    Adesso niente. Qualche auto e pochissime persone, perlopiù anziane.

    Del resto, mio figlio legatissimo ai suoi nonni, non va mai al camposanto, nemmeno in queste ricorrenze. “Sono nel mio cuore, li ricordo tantissimo – dice – ma non vado al cimitero”.

    Eppure, il culto dei Defunti è antico quanto l’ umanità. Pensiamo agli Egizi, agli Etruschi. O, addirittura, al Paleolitico medio, circa 100.000 anni fa, con le prime testimonianze di rituali di sepoltura, come dimostrato dal ritrovamento di tombe con corredi funerari e la curata disposizione dei defunti.

    Per non parlare dei necrologi. Soltanto qualche decina di anni fa, riempivano intere pagine di quotidiani e settimanali. Oggi, nei giornali, sono quasi spariti.

    Un’inconscia rimozione della morte dalla nostra cultura e dalle nostre usanze? Non lo so. Non sono esperto di psicologia.

    Ma certo, quei cimiteri deserti – anche nelle ricorrenze canoniche – mi hanno messo una grande tristezza.

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  • GRISSINOPOLI, DELIZIE DI UNA BISTECCA STORICA

    15 novembre 2025 • CINQUE SENSI • 2273

    GRISSINOPOLI

    Chissà perché nell’ immaginario dell’ enogastronomia i grissini sono indissolubilmente legati alla città di Torino e al Piemonte. C’ è una ragione storica. Tradizionalmente la sua nascita si fa risalire al 1679, quando il fornaio di corte Antonio Brunero, sotto le indicazioni del medico lanzese Teobaldo Pecchio, inventò questo alimento per poter nutrire il futuro re Vittorio Amedeo II, di salute cagionevole ed incapace di digerire la mollica del pane.

    Napoleone se li faceva consegnare a Parigi e il re Carlo Felice li mangiava a teatro, incurante dei fastidi che i suoi rumori di masticazione provocava agli spettatori. E allora siamo andati da Enrico Murdocco giovane e valente panificatore in Torino a vedere come nascono i classici grissini stirati piemontesi: farina, acqua, lievito e olio gli ingredienti, e poi tutti tirati a mano.

    Salgari, l’ inventore di Sandokan, con tono un po’ dispregiativo, definì Torino “grissinopoli”.

    Ma Grissinopoli è anche un piatto iconico della cucina piemontese: una bistecca impanata con grissini sbriciolati.

    Tanti i ristoranti, in regione, che ce l’ hanno sempre nella carta del menù. I nomi sono diverse, ma la sostanza è sempre la stessa: una bella bistecca di Fassone piemontese, alta almeno 3 centimetri, impanata con grissini torinesi, rigorosamente sbriciolati a mano.

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Cose nostre

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    4 dicembre 2025 • 134

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LUOGHI E LIBRI

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