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  • CHE BONTA’ LE CHIOCCIOLE DI CHERASCO

    28 settembre 2024 • CINQUE SENSI • 2045

    LUMACHE CHIOCCIOLE

    Guai a chiamarle lumache. A Cherasco, storica cittadina cuneese, per tutti sono le chiocciole e ne hanno fatto un vero core business, inventando il metodo Cherasco per l’ allevamento, la coltura, la lavorazione, l’ utilizzo in cosmesi e  farmaceutica e ovviamente in cucina. Gustose, croccanti, nutrienti, poco caloriche possono entrare nei primi piatti, nei secondi, ma anche nelle pizze, nei burger, nelle insalate. Insomma, sono infiniti i modi di cucinare e servire le chiocciole

    In realtà l’ elicicoltura è diffusa in tutta Italia: 1500 allevatori di chiocciole con un indotto che complessivamente impiega 10mila persone per un giro d’ affari di 350 milioni di euro l’ anno. Produciamo però soltanto il 20 per cento del nostro fabbisogno, incrementando gli allevamenti potremmo arrivare a dar lavoro a 100mila persone.

    A Cherasco in autunno c’ è un Festival della Chiocciola ma c’ è anche la sede dell’ Istituto Internazionale di Elicicoltura dove questi animaletti vengono allevati in appositi recinti, poi portati nel centro dove comincia la lavorazione. Con la bava si possono ottenere prodotti per la cosmesi (eccezionali creme antirughe) ma anche per la farmaceutica. Insomma, da quel piccolo animaletto – proverbiale per la lentezza e per la sua vita sempre con la casa appresso – nasce un’ economia elicoidale che coinvolge e dà ricchezza a 13 settori.

    Ma è in cucina che la chiocciola di Cherasco vive il suo trionfo: basta provare qualcuno dei tanti menù proposti dai locali ristoranti per innamorarsi di questo piatto.

     

     

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  • GIROVAGANDO…IL CAMPANILE GRISSINO A TORINO

    27 settembre 2024 • LUOGHI E LIBRI • 4078

    NOSTRA SIGNORA DEL SUFFRAGIO

    Girovagando per  Torino vi capiterà di osservare la città dall’ alto e da qualsiasi punto vi  salteranno subito agli occhi la Mole Antonelliana insieme a qualche grattacielo, vecchio e nuovo, e quel campanile così strano. Lungo come un grissino, colorato, illuminato di notte, davvero una costruzione insolita.

    E’ la torre campanaria della chiesa dedicata a Nostra Signora del Suffragio, impropriamente detta di Santa Zita, di via San Donato 33, nell’ omonimo quartiere a poche centinaia di metri da piazza Statuto. Fu aperta al culto il 1 novembre 1876 dopo 13 anni di lavori ed era la casa madre dell’ ordine religioso di suore fondato da Francesco Faà di Bruno. Generale dell’ Esercito, matematico, astronomo…insomma una personalità eclettica prima della sua dedizione totale alla chiesa e ai poveri. Nominato beato da papa Giovanni Paolo II nel 1988 e le sue spoglie riposano proprio nella chiesa di via San Donato.

    Quell’ edificio fu costruito dal Faà di Bruno e le sue capacità tecnico scientifiche si rivelano soprattutto osservando il campanile che domina la cupola in stile romanico-bizantino. La torre è alta 75 metri mentre la base è un quadrato di soli 5 metri per lato. Insomma, un vero grissino.

    La cella campanaria non si trova in cima come in tutti i campanili, ma a metà. Trentadue colonne metalliche sorreggono la cella per non ostacolare il propagarsi delle onde sonore delle campane che a mezzogiorno arrivano in tutto il quartiere di San Donato nonostante il caos odierno.

    In cima c’ è un osservatorio astronomico dove lavorava Francesco Faà di Bruno, oggi in disuso, e un orologio con quattro quadranti illuminati anche di notte, utilissimi quindi a tutti agli abitanti del borgo.

    Sulla guglia una statua dorata di San Michele Arcangelo nell’ atto di suonare la tromba.

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  • LEI È STATA DAVVERO UNA GRANDISSIMA DONNA

    26 settembre 2024 • COSE NOSTRE • 772

    romanablasottipavesi

    Le cronache quotidiane ci presentano tantissime figure di donna, le più svariate. Dalla cronaca come dal gossip, dallo spettacolo come dalla politica, dallo sport come dall’ industria. Alcune esemplari, altre meno…Non sta a me giudicare. E non entro in questa spinosissima questione.

    Voglio ricordare invece la figura di una donna vera: per me, lei è stata davvero grande, un’ eroina. L’ho intervistata più volte e quegli occhi, quello sguardo, quella fierezza li porterò sempre nel cuore.

    È Romana Blasotti Pavesi, per tutti la Romana di Casale Monferrato. Un nome che ai più non dirà nulla, ma la sua è una storia da raccontare e conoscere: la storia di una vera eroina, suo malgrado, dei tempi moderni.

    È stata la donna simbolo della lotta all’Eternit.  Una vita segnata dal dolore, colpita negli affetti più cari, perché la micidiale fibra d’amianto le ha tolto il marito Mario (scomparso nel 1983, a 61 anni), operaio Eternit, la sorella Libera (morta nel 1990, a 59 anni), la figlia Maria Rosa (deceduta nel 2000, a 50 anni). Da questi dolori terribili Romana ha tratto forza per una lotta che ha portato avanti per decenni, ispirata da un profondo desiderio di giustizia contro il male che la sua città, Casale, ha dovuto subire a causa dell’Eternit.

    Battaglie che l’hanno vista per 30 anni essere la guida e presidente dell’Afeva – Associazione Familiari e Vittime dell’amianto – di cui ha mantenuto la presidenza onoraria fino alla morte, nei giorni scorsi, a 94 anni.

    Una lotta per dare giustizia alle migliaia di vittime del mesotelioma pleurico (malattia terrificante provocata dalle fibre di amianto). E a Casale si continua a morire, anche se l’Eternit è chiusa dal 1986. Ma quella fabbrica ha diffuso nell’aria le sue polveri micidiali dal 1907 in avanti, seminando morte e dolore.

    Mentre le tv si contendono interviste a vari tipi di donna e le prime pagine dei quotidiani sembrano diventate copertine di riviste di gossip, che si intrufolano sotto le lenzuola, noi vogliamo ricordare la Romana di Casale Monferrato. Davvero, una grandissima donna.

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  • LA ZUCCA, STORIA E RICETTE

    21 settembre 2024 • CINQUE SENSI • 4140

    zucca

    Le origini della zucca sono sconosciute ma, dai reperti trovati, è certo che la sua coltivazione e l’uso fossero diffusi già presso gli Egizi, i Romani , gli Indiani d’Oriente, gli abitanti del Niger e gli Africani, anche se in varietà diverse da quelle in uso oggi.

    Gli antichi Romani le svuotavano della polpa e le essiccavano, per ricavarne contenitori leggeri e impermeabili per  vino, acqua, sale, latte o cereali. Erano qualità originarie dell’India. Ma le zucche attualmente presenti nelle nostre coltivazioni e sulle nostre tavole, da dove provengono?

    Sono originarie dell’America Centrale dove sono stati ritrovati semi risalenti al 7.000 AC.

    In Nord America la zucca era l’alimento base degli Indiani e, proprio da loro, i coloni ne appresero la coltivazione e il consumo. Attraverso l’importazione arrivarono quindi in Europa le qualità di zucca grande come la Pepo, la Maxima e la Moschata, da queste ne sono derivate le specie più diffuse e consumate nel nostro territorio, anche se il consumo era maggiore negli anni ‘60/’70.

    Nei paesi anglosassoni è uso diffuso utilizzare grandi zucche per la preparazione della Jack-o’-lantern, caratteristica lanterna rudimentale utilizzata durante la festa di Halloween per cacciare gli spiriti maligni che, secondo la leggenda, vagano sperduti sulla terra. Si narra che, se una persona o un animale posseduto da questi spiriti si avvicina a una casa in cui è presente una zucca/lanterna, quest’ultima si illumina d’azzurro intenso e lo spirito viene intrappolato dalla fiamma.

    Con il termine zucca vengono identificati i frutti di diverse piante appartenenti alla famiglia delle Cucurbitacee, in Italia il periodo di raccolta va da settembre a tutto novembre. La zucca, ma soprattutto i suoi semi, hanno notevoli proprietà terapeutiche, sono infatti utili per combattere la colite e altri disturbi del tratto intestinale , l’insonnia, l’ipertrofia prostatica e addirittura la tachicardia.  E’ inoltre un ortaggio che si  presta a mille ricette: si consuma cucinata al forno, al vapore, nel risotto o nelle minestre, è ottima fritta in pastella e molto conosciuti e appetitosi sono i tortelli mantovani. Dai semi si ottiene un olio rossiccio usato in cosmesi e in cucina. Gli stessi semi sono deliziosi tostati e salati.

    Sono veramente molti i modi di impiegare in cucina la polpa di zucca, ma la nostra scelta è caduta sulla ricetta dell’ottima torta alla zucca. Una parentesi golosa ricca di gusto e proprietà benefiche:

    Torta alla zucca:

    Per la base

    Ingredienti: 200 gr. di farina,100 gr. burro freddo, 1 tuorlo d’uovo, 1 pizzico di sale, 3-4 cucchiaini d’acqua.

    Preparazione: nel frullatore mischiare la farina, il burro, il tuorlo, l’acqua e il pizzico di sale. Azionare il frullatore solo per 5/6 secondi alla volta. Quando l’impasto risulterà granuloso, togliere dal frullatore e finire di impastare a mano. Far riposare in frigo per 15 minuti.

    Per il ripieno

    Ingredienti: 1 Kg zucca non acquosa (preferibilmente di pasta gialla), 150 gr di zucchero, 3 uova intere, 1 cucchiaio di farina (setacciata onde evitare i grumi), 1 cucchiaino di cannella in polvere, 1 dl. di latte,10 amaretti, la buccia di 1 limone.

    Preparazione: far cuocere la zucca a pezzi nel forno per 30 minuti oppure farla saltare in una padella antiaderente senza aggiungere nulla (ne burro, olio o acqua).Quando sarà cotta frullarla con l’aiuto del frullatore.Quando si sarà intiepidita, aggiungere le uova, lo zucchero, la farina, la cannella, il latte e la buccia del limone grattugiata finemente.

    Preparazione torta

    Con l’impasto per la base, foderare la tortiera imburrata e infarinata con la pasta di uno spessore di circa 3/4 mm. e lasciare i bordi alti 2 cm. Bucare il fondo dello stampo con una forchetta. Cospargetelo con gli amaretti tritati, versare il composto. Infornare per 50 minuti a 180∞ ( con il forno già a temperatura). Servire fredda e a piacere decorare con alcuni ciuffi di panna montata fresca.

    Patrizia Durante

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  • SCAFFALE: DI VIOLE E LIQUIRIZIA DI ORENGO

    20 settembre 2024 • LUOGHI E LIBRI • 2120

    Di viole e Liquirizia

    Il titolo è  già  un programma. Ti immerge subito in un fascino di profumi. La lettura, poi, ti porta in un meraviglioso mondo di sapori e percezioni olfattive e visive.

    Nico Orengo, scrittore torinese  scomparso nel 2009, per una volta abbandona i suoi  luoghi preferiti, fra Piemonte, Liguria e Costa Azzurra. Questo “Di viole e liquirizia”, pubblicato nel 2007  da Einaudi, e riedito adesso da Gedi, è ambientato in Langa, fra Alba e le terre del Barolo. Anche se una capatina fino a Nizza, in Francia,  il protagonista se la concede.

    Daniel è  un sommelier parigino che – chiamato a Alba per una serie di degustazioni – si trova catapultato in una saga familiare, ma anche nelle vicende umane di una terra  che, dopo i tempi della malora di Fenoglio, si trova adesso a vivere nella ricchezza e nello sfarzo. Ma più  che la trama, in questo romanzo di  Orengo, a catturare il lettore  sono le descrizioni dei vini, i sapori e  gli odori delle vigne, l’ombra delle colline, la scontrosità dei personaggi.

    Insomma, più  che un romanzo è un viaggio in Langa.

    NICO ORENGO

    DI VIOLE E LIQUIRIZIA

    EINAUDI EDITORE

    15 euro

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  • QUEI MALEDETTI TAPPI DI PLASTICA

    19 settembre 2024 • COSE NOSTRE • 772

    TAPPI

    Fin dal 3 luglio, cioè da quando è entrata in vigore la misura dall’ Unione Europea relativa al tappo legato alla bottiglietta d’acqua, ho pensato che fosse una… boiata pazzesca. L’Unione Europea avrebbe avuto cose ben più importanti di cui occuparsi.

    Opinione condivisa da parecchi di voi, ne sono sicuro.

    Poi, nelle settimane scorse, mi sono ritrovato su spiagge lontane, dall’altra parte dell’Emisfero e mi sono imbattuto in un interminabile strato di tappi di plastica.

    Giuro. Migliaia e migliaia di tappi e altri residui plastici per chilometri di splendido litorale, bianco di sabbia finissima, simile al borotalco. Nella notte c’era stata una mareggiata e l’oceano aveva scaricato tonnellate di rifiuti di plastica. Uno scenario sconfortante e deprimente: la sabbia non si vedeva quasi più, ricoperta da pezzi di plastica e perlopiù da quei maledetti tappi.

    E allora – voi direte – che ho pensato a quanto bene ha fatto l’Unione Europea nell’introdurre quel provvedimento?

    Anche, ma non solo.

    Ho, invece, riflettuto su quanto siamo ignoranti, primitivi e incivili, noi uomini e donne del mondo così detto “evoluto”, se abbiamo bisogno di una legge europea e di un pezzettino di plastica per evitare di gettare i tappi delle bottigliette in giro e quindi, in mare. Che futuro può avere una generazione che non è in grado di capire da sola – senza costrizioni – che la salvaguardia della Terra dipende dal comportamento di ciascuno, nessuno escluso?

    E che anche un piccolo gesto, come gettare la bottiglietta dell’acqua, con relativo maledetto tappo, nella differenziata, può salvare un pesciolino nel mare.

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  • RIDATEMI PANE, BURRO E ZUCCHERO

    14 settembre 2024 • CINQUE SENSI • 3589

    PANEBURROZUCCHERO

    Da bambino, mia mamma a merenda mi dava, quasi sempre, una fetta di pane con burro e zucchero, oppure con marmellata. Altre volte cambiava: pane, burro e acciughe. Poi partì una campagna denigratoria contro il pane, il burro e lo zucchero. “Fanno male, fanno ingrassare” erano gli slogan più in voga e quei cibi sono stati – per anni – quasi banditi dalle nostre tavole. Adesso fior di nutrizionisti hanno riveduto le proprie teorie. Il pane? Indispensabile, molto meglio dei grissini. Il burro? 40 grammi al giorno fanno bene al nostro organismo. Lo zucchero? Utilissimo per il cervello mentre i dolcificanti potrebbero essere cancerogeni.

    Quindi una bella fetta di pane caldo, con una noce di burro spalmata e un’ ampia spolverata di zucchero… Che fior di merenda. Sana, nutriente e buona, ve lo assicuro.

    Siamo cresciuti gustando ghiaccioli pieni di coloranti che ci dipingevano lingua e faccia; mangiando cioccolate piene di zuccheri e di olio di palma; sgranocchiando biscotti preparati con grandi quantità di glutine; bevendo bibite variopinte, gassate e dolcissime. I nostri bambini, oggi, li nutriamo con cibi privi di glutine, senza zuccheri, senza lattosio, senza grassi d’ ogni tipo e senza tante altre cose.. Sono più in salute? Sono più magri? Non mi sembra proprio…

    “Noi siamo quello che mangiamo…” si usa dire. E allora io voglio ancora mangiare pane, burro e zucchero. Cioè giusto, buono e sicuro.

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  • GIROVAGANDO: NAPOLEONE E L’ ALESSANDRINO

    13 settembre 2024 • LUOGHI E LIBRI • 2936

    NAPOLEONEMARENGO

    “Ei fu siccome immobile….”.  Dal 2021, anno del Bicentenario della morte di Napoleone, in poi non si può dimenticare che molte sono le città italiane segnate dal passaggio di Bonaparte, Imperatore dei francesi e Re d’Italia, ma furono Alessandria e la battaglia vittoriosa di Marengo del 14 giugno del 1800 a rendere leggendario il condottiero. E’ questo che distingue la città piemontese dalle altre, italiane e straniere:  Marengo vuol dire la vittoria che consacrò Napoleone Imperatore, diventando per lui un ricordo indelebile. Addirittura in esilio Bonaparte porterà con sé il mantello che indossava quel 14 giugno; lo stesso che lo avvolgerà al momento della morte. Per molti Marengo fu e rimane la Capitale naturale dell’Italia Napoleonica.

    Le suggestioni della celebre battaglia si possono rivivere anche nel Marengo museum presso la Villa napoleonica Delavo. Vi sono esposti opere d’arte, oggetti d’epoca, libri, documenti, armi, mappe, uniformi, materiali multimediali e molto altro. Il 5 maggio 1805, tornando ad Alessandria in occasione dei festeggiamenti per la vittoria, Napoleone fece erigere una piramide che ricordasse il sacrificio dei suoi uomini e al tempo stesso la gloria ottenuta.

    La piramide, distrutta dall’arrivo degli austriaci, fu ricostruita nel 2009, diventando il simbolo dell’Alessandria napoleonica, e si trova oggi all’ingresso del museo. Tra gli oggetti più interessanti esposti nel sito ci sono il calamaio usato per firmare la resa austriaca dopo la battaglia di Marengo e la lettera con cui Berthier annunciò la vittoria a Josephine. Ma ci sono anche armi provenienti dal campo di battaglia: uniformi originali, pistole, fucili e tanto altro. Costruita nel 1847 per ricordare la vittoria di Napoleone, villa Delavo è stata completamente restaurata, riportando alla luce affreschi e dipinti. Nel parco è presente anche la cappella/ossario che il Delavo fece erigere per riunirvi i resti dei caduti, in prossimità del busto del generale Louis Charles Desaix.

    Altro punto di interesse è il ponte sul Bormida, riedificato in periodo napoleonico sopra il Ponte romanico costruito dai monaci benedettini nel XIV secolo. Alla testa di ponte sorge il platano di circa 40 metri che la tradizione vuole sia stato piantato nel 1800 da Napoleone per onorare i circa 2.000 soldati morti il giorno della battaglia e i 10.000 feriti di entrambi gli schieramenti. C’è poi Palazzo Ghilini, la residenza preferita da Napoleone. Si tratta di un edificio in stile barocco piemontese e deve il proprio nome al suo committente, il marchese Tommaso Ottaviano Antonio Ghilini, che lo fece edificare nel XVIII secolo.

    O, ancora, la Cittadella di Alessandria, che è l’unica fortezza europea ancora inserita nel suo contesto ambientale originario. Dopo la vittoria di Marengo e l’ascesa al trono imperiale in Francia, Napoleone decise di ampliarla con nuove fortificazioni e restaurarla. Lo scopo era quello di realizzare una grande base logistica destinata a supportare le operazioni dell’esercito francese schierato nel Nord Italia.

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  • PIEMONTE SEMPRE PIU’ ISOLATO

    12 settembre 2024 • COSE NOSTRE • 646

    TUNNELMONTEBIANCO

    La riapertura del traforo ferroviario del Frejus slitta al primo trimestre del 2025.

    Abbiamo assistito da parte dei Francesi ad annunci di riapertura prevista, prima, per ottobre 2023, poi spostati a primavera 2024, poi autunno 2024 e ora siamo arrivati a primavera 2025. Ma è mai possibile che dopo 11 mesi dalla frana ci si accorge soltanto adesso che “le cavità instabili scoperte di recente nella zona centrale del pendio si sono rivelate più ampie del previsto, rendendo necessario l’intervento di ulteriori lavori di drenaggio, ancoraggio e recinzione?”.  Quindi, oggi, se si vuole andare in treno in Francia occorre mettere in conto un trasferimento del confine in autobus, con relativo allungamento dei tempi. Unica alternativa è andare in auto e quindi maggior traffico.

    Vogliamo ricordare, inoltre, che dal 2 settembre al 16 dicembre prossimi anche il Traforo del Monte Banco sarà chiuso alla circolazione, nei due sensi di marcia, per i previsti interventi di manutenzione e messa in sicurezza del tunnel.

    La riapertura della Galleria del Tenda è prevista per la fine del periodo autunnale, diciamo fra novembre e dicembre. Cioè quando, ai mezzi pesanti, non sarà più possibile transitare per il Colle – con i suoi 46 tornanti – a causa delle intemperie e delle nevicate. Quest’ ultime auspicate dagli operatori turistici.

    Ricordiamo che il nostro amato Piemonte rappresenta la via principale di collegamento con la Francia e quindi con l’ Europa. Per tutto il 2024 è rimasto semisolato e la prospettiva è che lo resti ancora per qualche mese.

    Andiamo sulla Luna. Forse avremo il Ponte sullo Stretto. Intanto restiamo bloccati da una frana. Non credo che questo sia progresso.

     

     

     

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  • Castelmagno, un formaggio amato da oltre 700 anni

    7 settembre 2024 • CINQUE SENSI • 6650

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    Risale al 1277 il primo documento scritto in cui viene citato il Castelmagno. Si tratta di una sentenza arbitrale in cui il marchese di Saluzzo impone al comune omonimo di pagare una tassa annuale con sette forme di Castelmagno d’alpeggio anziché in moneta sonante.

    Il Castelmagno è uno dei punti fermi dell’eccellenza gastronomica piemontese e la sua storia secolare lo conferma. E’ un formaggio nato dall’ingegno dei pastori dell’Alta Valle Grana ed è uno dei migliori prodotti caseari della nostra regione. Le sue origini sono antichissime e si stemperano nella leggenda: la più interessante è quella legata al nome che potrebbe derivare dal santuario di San Magno, edificato per commemorare un soldato dell’esercito romano martirizzato nelle vicine montagne o addirittura dal nome dell’imperatore Carlo Magno che ne era particolarmente ghiotto.

    Si racconta che la prima volta che questo “cacio rosso e verrucoso” venne presentato sulla nobile tavola, il monarca, prima di gustarlo, lo ripulì con cura dalle muffe verdi, parte essenziale del formaggio stesso e frutto dell’accurata stagionatura. Solo dopo molte insistenze si lasciò convincere ad assaggiarlo nella sua integrità, inutile dire che ne fu talmente entusiasta che il Castelmagno non mancò mai alla sua mensa.

    Le notizie che parlano del Castelmagno utilizzato come forma di pagamento per tasse e scambio merci risalgono al tredicesimo secolo, ma si pensa che la sua produzione risalga all’anno Mille. Una forma di Castelmagno valeva circa dodici denari, una cifra interessante, che dimostra quanto fosse già allora apprezzato e valutato.

    Intorno al 1200 i comuni di Cuneo e Saluzzo entrarono in guerra per il possesso di alcune forme di Castelmagno, il conflitto durò trent’anni, uno per ogni forma contesa. Cinquecento anni dopo, Vittorio Amedeo II di Savoia, era così goloso di questo formaggio da arrivare al punto di decretare che la comunità di Castelmagno avrebbe dovuto inviare ogni anno, oltre ai denari per il pagamento delle tasse, anche nove rubli di formaggio.

    Il Castelmagno era presente anche sulle tavole di Papi di Avignone che ne erano grandi estimatori.

    Ma è l’800 il secolo d’oro del Castelmagno. In quegli anni è considerato il miglior formaggio italiano ed è presente sui carrelli dei migliori ristoranti europei, primi fra tutti quelli londinesi e parigini.

    La prima e la seconda Guerra Mondiale contribuiscono purtroppo allo spopolamento delle valli e fino agli anni Settanta il Castelmagno rischia seriamente di scomparire, diventa quasi del tutto sconosciuto alla maggioranza dei consumatori. La produzione massiccia riprende solo negli anni Ottanta e, poco alla volta, ritorna sulle tavole degli italiani; nel 1982 ottiene il riconoscimento nazionale del marchio DOC e nel 1996 quello europeo DOP. Nel 2002 è certificato il Consorzio per la tutela del Castelmagno, nato con lo scopo di tutelare e promuovere quello che è riconosciuto come una delle produzioni casearie più rare, genuine e pregiate d’Europa.

    Il Castelmagno è prodotto, stagionato e confezionato solo nei comuni di Castelmagno, Pradleves e Montegrosso Grana in provincia di Cuneo; ma non solo, anche il latte deve provenire dagli stessi luoghi. Può inoltre fregiarsi della menzione aggiuntiva di “Prodotto della montagna” solo se il latte, la lavorazione e la stagionatura avvengono in zone classificate come montane, se invece il ciclo produttivo avviene sopra i 1000 metri può essere classificato con la denominazione “di Alpeggio”

    Esistono diverse tipologie di Castelmagno: quello fresco ha una crosta sottile, liscia e rossastra, la pasta è friabile di colore bianco perlaceo. Lo stesso formaggio con cinque mesi di stagionatura ha la crosta ingiallita e rugosa, la pasta interna è più compatta con colore tendente al paglierino, possono essere presenti anche venature verdi. L’erborinatura (del tutto casuale) è particolarmente apprezzata dagli appassionati del Castelmagno: il sapore diventa più intenso e risaltano i sentori delle erbe alpine. Proprio la particolare varietà e fragranza delle erbe presenti nei pascoli di alta valle sono il presupposto per produrre latte vaccino di altissima qualità, e quindi dell’ottimo Castelmagno.

    La produzione del Castelmagno è legata a norme particolarmente restrittive che dovrebbe servire a scoraggiare, ma anche a identificare con facilità i molti tentativi di imitazione. Attualmente i produttori del Castelmagno autentico sono circa una dozzina e producono circa sei/settemila forme all’anno contese dai migliori ristoratori di tutto il mondo.

    Risotto con Castelmagno, miele e noci

    Ingredienti per 4 persone: 600 gr di riso Carnaroli, 1 cipolla, brodo vegetale quanto basta, 1 bicchiere di vino bianco DOC del Piemonte, 500 gr di Castelmagno DOP, 2 cucchiai di miele, 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva, 50 gr diburro, 8/10 noci.

    Scaldare l’olio in una padella ampia, unite la cipolla tritata finemente e fatela soffriggere fino a quando non è dorata ma soffice. Aggiungete il riso e tostatelo per qualche minuto mescolandolo. Aggiungete il vino bianco e cuocete fino a quando il vino non sarà completamente evaporato. Unite quindi 300 gr di Castelmagno tagliato a cubetti e, poco alla volta il brodo vegetale, mescolate con cura il vostro risotto con un mestolo di legno. Al termine cottura, mantecate sul gas aggiungendo 200 gr di Castelmagno grattugiato, il burro e il miele, mescolate con molta attenzione e cuocete ancora qualche istante. Togliete quindi il risotto dal fuoco e decoratelo con un po’ di castelmagno in scaglie, le noci tritate grossolanamente e ancora un po’ di miele. Buon Appetito!

    Patrizia Durante

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