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  • LA TORTA 900, A IVREA SENZA IMITAZIONI

    30 novembre 2024 • CINQUE SENSI • 3048

    torta900

    Si fa presto a dire 900  e a dire torta. Per realizzare questa eccellenza di pasticceria ci sono voluti circa 130 anni. Fu infatti Ottavio Bertinotti un pasticcere di Ivrea, in provincia di Torino, a crearla verso la fine del 1800 e a darle il nome simbolico di Torta 900 proprio in onore al nuovo secolo che stava per aprirsi. Nel 1972 la famiglia Balla decide di acquisire e depositare il brevetto e da allora la ricetta è segreta

     

    “Abbiamo anche depositato il brevetto Torta 900 proprio per evitare contraffazioni e imitazioni” dice Francesca, una delle eredi.

    Nel laboratorio artigiano – nel cuore di Ivrea –  nasce da più di un secolo la torta 900. Il pasticcere Stefano Balla è il maestro nella preparazione di questi due strati di pan di spagna con farcitura di crema al cioccolato, ovviamente senza svelare a nessuno i segreti gelosamente custoditi.

    Non cercatela in giro, la Torta 900 viene prodotta, venduta o consumata a fette, soltanto nella pasticceria nel cuore storico di Ivrea.

    “La facciamo solo qui, abbiamo pensato di esportarla ma avremmo perso quella genuinità e freschezza che si trova consumandola fresca, appena acquistata” spiega ancora Francesca.

    Oltre 50 torte vengono sfornate quotidianamente nei giorni di bassa affluenza, più del doppio sabato e domenica, nei festivi e ovviamente per Pasqua non può mancare la Torta 900 fatta forma di colomba, sempre con la caratteristica scritta realizzata con zucchero a velo.

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  • SCAFFALE: CLARA E GIGI PADOVANI E LA GRAMMATICA DEL CIOCCOLATO

    29 novembre 2024 • LUOGHI E LIBRI • 1082

    cover[62][15].png

    Ancora un libro sul cioccolato? Ebbene sì. Anzi, un abbecedario, una vera e propria grammatica, come recita il titolo dell’ ultimo lavoro di Clara e Gigi Padovani, coppia nella vita e da vent’anni nella scrittura, tra i primi a diffondere la cultura del cioccolato in Italia. Per questo sono stati definiti “la coppia fondente”.

    Perche’, anche se siamo convinti di sapere tutto del cioccolato, in realtà sappiamo poco. E quando gustiamo una tavoletta siamo così rapiti dl suo gusto, da trascurare il lungo viaggio che questo prodotto compie da almeno cinquanta secoli. L’albero del cacao cresce soltanto nella fascia equatoriale del pianeta, eppure il cioccolato è diffuso in tutto il mondo. Come altre piante dal significato simbolico, vanta origini divine e ha assunto un ruolo insostituibile nell’alimentazione, nella cultura, nell’economia e nella vita sociale degli uomini.

    Elevato a cibo degli dei, inizialmente ha conquistato nobili e clero per poi sedurre milioni di consumatori.

    Questa particolare grammatica, nata da oltre vent’anni di esperienza degli autori tra degustazioni, visite in cioccolaterie artigianali e fabbriche dolciarie, viaggi nelle piantagioni di cacao e incontri con maestri cioccolatieri di tutto il mondo, ci racconta il cacao e il cioccolato tra scoperte, leggende, evoluzioni sociali e culturali: le varietà botaniche, i segreti gourmet, le esperienze sensoriali. Un’avventura eccitante e complessa che mostra anche ciò che è diventato oggi il cioccolato.

    Il libro presentato in una veste elegante con copertina rigida e carta patinata è anche un’ originale idea-regalo per le prossime festività. Anzichè la solita scatola di cioccolatini, una grammatica per poter gustare ancora meglio il nettare degli dei.

    CLARA E GIGI PADOVANI

    LA GRAMMATICA DEL CIOCCOLATO E DEL CACAO

    GRIBAUDO EDITORE

    24 euro

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  • QUESTO NON È UN PAESE PER CITTADINI ONESTI

    28 novembre 2024 • COSE NOSTRE • 881

    giustizia

    Ero molto tentato di intitolare questo Punto come un  “Invito all’illegalità”… poi ho desistito, ma il succo è proprio quello.

    Nel 2023 ho emesso una fattura per poco più di 2500 per un lavoro svolto nel mese di maggio. Dopo numerose insistenze mi è stata versata la metà dell’importo. Il resto nulla. A niente sono servite richieste, suppliche, messaggi perentori. Perciò il mese scorso mi sono rivolto a un avvocato per richiedere e ottenere un decreto ingiuntivo e così recuperare il credito dovuto. Il giudice di pace ha fissato l’udienza per il 2030. Avete capito bene, 2030. Se si fa richiesta di procedimento d’ urgenza l’ udienza potrebbe essere anticipata al 2028.

    Altro caso. Mio figlio con amici ha scelto la Sicilia per le sue vacanze. Hanno affittato un Van da 8 posti e il noleggiatore di Catania ha preteso, due mesi prima, il versamento della caparra di 1500 euro, con bonifico istantaneo. Pochi giorni prima delle loro vacanze, il medesimo noleggiatore, ha scritto per dire che quel Van gli era stato rubato, ma che lui avrebbe provveduto a trovarne un altro. Quando i ragazzi sono arrivati in Sicilia, l’amara sorpresa. La vettura sostitutiva era impresentabile (tante spie rosse accese, carrozzeria inguardabile, ecc), impossibile da utilizzare. Risultato? I ragazzi hanno dovuto affittare un’altra auto, ovviamente presso un altro autonoleggio. Per quell’anticipo nessuna restituzione, nonostante lettere e ripetute richieste. E l’avvocato ha sconsigliato di fare una causa al Tribunale di Catania, per “soli” 1500 euro.

    Insomma, questo è lo stato della Giustizia nella nostra povera Italia. Mentre i governanti e la politica si scontrano con la Magistratura su intercettazioni, bavagli, indipendenza delle toghe, ecc. il povero cittadino resta sconcertato e spesso se la prende in quel posto.

    È davvero un Paese per i cosiddetti furbi? Per quelli che cercano sempre di fregare gli altri?

    Per questo sarei tentato di scrivere che è meglio non pagare, perché tanto… c’è il rischio di farla franca. Ma sono un cittadino onesto e corretto e non lo faccio. Oppsss…….

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  • PER LA FESTA IL FRITTO MISTO ALLA PIEMONTESE

    23 novembre 2024 • CINQUE SENSI • 4232

    frittomisto

    Un tempo, nelle cascine di campagna, le grandi occasioni di festa e di abbuffate erano Natale, Pasqua, i matrimoni e il giorno in cui si ammazzava il maiale. In quell’ occasione le massaie piemontesi preparavano il fritto misto: le frattaglie e i tagli di seconda qualità del suino venivano impanati, fritti e serviti caldi in tavola. Uguale tipo di cottura per alcuni pezzi di frutta e di dolce, soprattutto il semolino fatto con uova, semola, zucchero e latte.

    Per qualche decennio il fritto misto è stato un po’ accantonato dalle tavole piemontesi. Oggi è tornato in gran voga e fior di ristoranti – stellati e meno conosciuti – lo propongono come piatto forte o piatto unico. Le province di Torino, Asti, Cuneo e Alessandria sono le zone della regione dove il fritto misto alla piemontese raccoglie i maggiori estimatori.

    Meglio scegliere quei ristoranti-agriturismi dove si alleva il bestiame (polli, suini e bovini), si producono frutta di stagione e l’ orto offre tutti i tipi di verdura appena raccolta. E’ ovvio, quindi, che – a quel punto – il fritto misto profumerà davvero di natura e di km zero.

    Il fritto misto va servito – a regola d’ arte – un pezzo alla volta, perchè ogni portata deve essere gustata calda e croccante

     

    Alcune osterie propongono un fritto misto addirittura con 30-40 portate, troppe! Il numero esatto è attorno alla quindicina (bistecca di maiale, di vitello, cervella, fegato, salsiccia, zampone, midollo, melanzane, cavolfiori, zucchine, carote, semolino, pavesini mela, prugna). Ma attenzione la cosa più importante è la leggerezza. La frittura non si deve quasi sentire: appoggiate i pezzi appena fritti su un tovagliolo di carta e – se è ben fatto – non ci debbono quasi essere  tracce di unto.

     

    Vietato esagerare, ricordate che il fritto misto alla piemontese resta il piatto del ‘dì di festa’, solo di quei giorni in cui si fa festa.

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  • GIROVAGANDO: RIFUGIO MILETTA DI AGRATE CONTURBIA

    22 novembre 2024 • LUOGHI E LIBRI • 3051

    rifugiomiletta

    Noi l’ abbiamo trovata l’ Arca di Noè. E’ in provincia di Novara, ad Agrate Conturbia, e si chiama Rifugio Miletta, un luogo dove vivono insieme, in assoluta libertà  e senza alcuna costrizione, circa 200 animali domestici e 130 selvatici. Un’ associazione di volontariato dove gli attivisti si prendono cura di esemplari in difficoltà , sottratti da sofferenze e schiavitù. Il Rifugio Miletta fa parte della rete dei Santuari Animali, decine e decine di centri simili in tutta italia

     

    Asini, cavalli, pony, pecore, capre, maiali, cani, gatti  cinghiali convivono liberamente e pacificamente in grandi spazi, con cibo a volontà, in una specie di oasi naturale, quasi un Eden. Si tratta di animali da reddito sottratti a condizioni di sfruttamento, ma il Rifugio Miletta – che opera dal 2013 – è anche Centro Recupero Animali Selvatici: quindi a chiunque capita di imbattersi0 in bestie ferite, coinvolte in incidenti stradali, cuccioli abbandonati può chiamare il numero di emergenza 112 che attiverà l’ intervento e il soccorso da parte dei volontari che operano 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Dopo le cure molti animali verranno rimessi in libertà, altri sterilizzati, rimarranno per sempre al Rifugio

    I costi sono altissimi, 70-80 mila euro all’ anno per le cure veterinarie e per il cibo, l’ ente pubblico dà un piccolo contributo. Per il resto i Santuari Animali vivono solo di volontariato e aiuti da parte degli amanti e sostenitori. Soprattutto nei week end il Rifugio è aperto al pubblico e sono tantissimi i visitatori – soprattutto i bambini – che incontrano questi animali e imparano un modo nuovo, diverso di rapportarsi alla fauna (domestica e selvatica) e magari si innamorano di una capretta o di un maialino e decidono di adottarlo.

     

    E allora buona vita al Rifugio Miletta e a tutti i suoi animali.

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  • CARCERI INDEGNE DI UN PAESE CIVILE

    21 novembre 2024 • COSE NOSTRE • 676

    CARCERE

    Ivrea, Cuneo, Torino, Alessandria, Biella… sono soltanto gli ultimi casi di cronaca che hanno riguardato le carceri piemontesi. Sono in corso indagini della magistratura e – come sempre – lasciamo a chi di dovere il compito di stabilire la verità. Perlomeno la verità giudiziaria.

    Perché una verità c’è già. Ed è acclarata. Le nostre carceri non sono degne di un Paese civile. Basterebbero, da soli, i dati sui suicidi in cella: già 75 da inizio anno. Ma anche  il  sovraffollamento delle nostre prigioni è da terzo o quarto mondo . A fine settembre i detenuti presenti nei 192 istituti di pena italiani erano 61.840 contro i 46.929 posti disponibili, quindi con un indice di affollamento pari al 131 per cento.

    In  Piemonte stiamo ancora peggio: gli ultimi dati indicano che le persone detenute all’interno dei tredici istituti detentivi regionali sono 4365 a fronte di 2943 posti, con un indice di sovraffollamento del 148,32 per cento. Per quanto riguarda gli agenti, attualmente in Regione sono operative circa 2900 unità e si lamenta una mancanza di circa 500. Emblematico il caso di Torino, dove a fronte di circa 400 detenuti in più rispetto alla capienza prevista, manca circa un centinaio di agenti.

    I problemi delle nostre carceri sono cronici: il personale è carente e quindi costretto a turni massacranti, le strutture sono fatiscenti e in condizioni igienico-sanitarie quantomeno discutibili, molti istituti sono senza direttori e il penitenziario di Torino è privo di vicedirettori; poi mancano i ruoli intermedi e risulta quindi risulta inadeguata l’ organizzazione della vita quotidiana dietro le sbarre.

    Riabilitazione e rieducazione? Sono soltanto semplici parole.

    Recentemente ho visto il film di Marco Risi “Il punto di rugiada” dove due ragazzi, condannati, anziché in prigione vengono mandati a lavorare in una casa di riposo. Ne consiglio vivamente la visione anche a chi è chiamato ad affrontare politicamente e amministrativamente il tema carceri.

    “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” .Le parole di Voltaire oggi suonano come condanna senz’appello della “civiltà” italiana.

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  • La polenta, da cibo dei poveri a piatto degli chef

    16 novembre 2024 • CINQUE SENSI • 11251

    polenta

    “A mezzogiorno come a cena passavano quasi sempre polenta, da insaporire strofinandola a turno contro un’acciuga che pendeva per un filo dalla travata; l’acciuga non aveva già più nessuna figura d’acciuga e noi andavamo avanti a strofinare ancora qualche giorno, e chi strofinava più dell’onesto, fosse ben stata Ginotta che doveva sposarsi tra poco, Tobia lo picchiava attraverso la tavola, picchiava con una mano mentre con l’altra fermava l’acciuga che ballava al filo.” Beppe Fenoglio – La Malora –

    Da sempre è definita il piatto dei poveri ma recentemente ha acquistato nuova dignità. Sdoganata da molti chef stellati, appare sempre più spesso nell’alta cucina internazionale.

    La polenta, così diffusa in tutto il Nord Italia, è un piatto quasi irrinunciabile, fa parte della nostra tradizione culinaria e nella stagione fredda arriva spesso sulle tavole. Inutile negarlo, un piatto di polenta mette allegria, il colore giallo intenso ricorda il sole, e il sapore particolare ne fa la compagna ideale per formaggi, carni e sughetti; ma è deliziosa anche con una noce di burro e una bella grattata di parmigiano.

    Le origini della polenta sono antiche, in Europa si è diffusa quando Cristoforo Colombo, al ritorno dall’America, portò alcune piantine di mais (o grano turco). Il navigatore spiegò che gli indigeni erano soliti macinare i chicchi e quindi far cuocere la farina ottenuta con l’acqua, il composto veniva poi servito con salse, legumi e carni. La pianta attecchì in maniera formidabile nel nord del nostro Paese e questo fece sì che fosse per molto tempo il piatto principale dei coltivatori e delle loro numerose famiglie.

    Il sapore della polenta si adatta a qualsiasi cibo, i contadini trovarono quindi mille modi per abbinare la polenta, nutriente e poco costosa, ai piatti esistenti e in certi casi prese il posto del più caro pane. In epoca di carestia molti arrivarono a consumare solo polenta, tanto che si sviluppò la pellagra, malattia dovuta alla carenza di sostanze nutritive differenziate necessarie all’organismo.

    Le ricette della tradizione contadina sono tutte ottime e la polenta si può preparare in un’infinità di modi: fritta, abbrustolita, concia (con aggiunta di formaggi e burro), al forno, ma è ottima servita a fianco dei brasati, accostata agli stufati di selvaggina, al coniglio alla cacciatora o al pollo in umido. Insomma un “raggio di sole” che ben si abbina ai piatti di carne dal sapore robusto.

    Diverse sono le varietà di farina, in Veneto amano la polenta bianca, in Valtellina non rinunciano alla polenta taragna, grezza ma molto saporita, in Piemonte va per la maggiore la polenta gialla a grana grossa o fina. Solida da tagliare col filo, oppure “lenta” per amalgamarla meglio col formaggio fuso… insomma, anche in questo caso la fantasia degli italiani non ha limiti.

    Un ultimo consiglio e un avvertimento: preparate una polenta dura, fatela raffreddare, tagliatela a fettine e intingetela nella bagna caoda, attenzione però, può creare dipendenza!

    Ingredienti: Acqua 2 litri, Olio extravergine d’oliva 1 cucchiaio, Sale grosso 1 cucchiaio raso, Farina di mais ½ kg.

    Versate l’acqua in una pentola capiente, mettetela sul gas e portate ad ebollizione, appena bolle aggiungete il sale grosso e l’olio extravergine d’oliva. Versate quindi la farina di mais molto lentamente e a pioggia, mescolando con una frusta robusta (tipo quella per dolci), eseguite quest’operazione con molta attenzione perché non si formino grumi fastidiosi. Quando avrete versato tutta la farina potrete sostituire la frusta con un cucchiaio di legno.

    Nel momento in cui la polenta riprenderà a bollire, abbassate il gas al minimo e coprite la pentola con il coperchio, mescolate di tanto in tanto dal basso verso l’alto in maniera da amalgamare bene i diversi strati. Se durante la cottura la vostra polenta dovesse risultare troppo dura, aggiungete un mestolo d’acqua bollente e incorporate bene. Dopo circa 40 minuti la polenta dovrebbe iniziare a staccarsi dal bordo della pentola, continuate la cottura per altri 20/30 minuti, sempre a pentola coperta e sempre a fuoco basso.

    Terminata la cottura la polenta si può versare su un tagliere e portarla in tavola così com’è, se amate invece un composto più morbido, versatela in una terrina e portatela in tavola calda e fumante.

    Buon appetito!

    Patrizia Durante

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  • SCAFFALE: CAROLINA INVERNIZIO E LA SUA NINA

    15 novembre 2024 • LUOGHI E LIBRI • 934

    invernizio

    Carolina Invernizio, nata a Voghera ma sempre vissuta in Piemonte fra Torino e Cuneo, è stata la precursora del romanzo rosa, o d’ appendice,  in Italia, ben prima di Liala. Ha scritto un’ infinità di libri, a metà fra il giallo e il sentimentale. Adesso, grazie alle Edizioni Capricorno, un suo volume è tornato in libreria: “Nina la poliziotta dilettante” .

    Siamo agli inizi del Novecento, nella zona della barriera di Orbassano, nei pressi di piazza d’Armi, allora esistevano poche case sparse, abitate da famiglie di operai. Una zona poco sicura, poiché nelle bettole delle vicinanze e nei prati attigui si davano convegno i malviventi della città. Ed ecco, infatti, un misterioso delitto: verso le cinque del mattino su un prato c’è un uomo steso a terra, immerso nel sangue. E’ il conte Carlo Sveglia, ucciso quella notte dopo essere uscito dalla casa della fidanzata Nina Palma, una giovane operaia, immediatamente indicata come prima sospetta. Ma….

    Di lì in poi si snoda la trama perfetta, quella di un noir assai moderno.

    Quando, nel 1909, dette alle stampe “Nina la poliziotta dilettante”, Carolina Invernizio aveva già pubblicato ben 63 romanzi. Ma “Nina” ha una particolarità nella storia della letteratura italiana: è il primo giallo ad avere come protagonista un’ investigatrice femminile, anticipando di oltre vent’ anni Agatha Christie e le av­venture di Miss Marple. E poi, oltre alla protagonista, tutti i personaggi della narrazione della vicenda sono donne.

    Tante quindi le ragioni per scoprire – o riscoprire – Carolina Invernizio attraverso la “sua” Nina

    CAROLINA INVERNIZIO

    NINA LA POLIZIOTTA DILETTANTE

    Capricorno Edizioni € 12,00

     

     

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  • STELLANTIS E ELKANN, NE’ TORINO NE’ ITALIA

    14 novembre 2024 • COSE NOSTRE • 916

    FIAT

    Vi ricordate l’acronimo FIAT? Stava a significare Fabbrica Italiana Automobili Torino.

    E’ definitivamente morto!

    Due esempi.

    Nei giorni scorsi all’Assemblea degli Industriali di Torino, in sala, non c’era nemmeno un rappresentante di Stellantis, che peraltro non è più iscritta. E il neopresidente Marco Gay non l’ha neppure nominata, sebbene abbia parlato del Torinese come Zona Economica Strategica, ancora adesso, e soprattutto per l’auto e il suo indotto.

    Il divorzio della Fiat e degli Agnelli da Torino fa male, inutile nasconderlo: fa male.

    Secondo episodio. Il presidente di Stellantis, John Elkann, ha scritto una lettera al Parlamento Italiano per dire che non andrà in audizione alla Camera, come era stato chiesto da alcuni gruppi politici. Si voleva apprendere dalla bocca del nipote dell’Avvocato, e quindi primo erede dell’impero, qualcosa di più esplicito sull’impegno del colosso industriale nel nostro Paese. “Non abbiamo nulla da aggiungere rispetto a quanto già illustrato dall’amministratore delegato”, ha scritto Elkann. Insomma: tutto quel che c’era da dire è già stato detto. Il succo, come si ricorderà, è che servono più incentivi, chiesti dall’ad Carlos Tavares, che peraltro è portoghese e sta a Parigi. “Scavalcare il Parlamento è un atto grave”, ha commentato il presidente della Camera, Lorenzo Fontana.

    Dopo tutto Elkann non fa che continuare la specialità della casa, una specialità che ha contraddistinto la Fiat negli anni, e cioè la straordinaria propensione a socializzare le perdite e tenersi gli utili.

    Questa è la situazione, piaccia o non piaccia. Fiat e Agnelli non sono più ne’ Torino né Italia.

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  • TUTTO PRONTO PER LA BAGNA CAODA

    9 novembre 2024 • CINQUE SENSI • 3032

    bagna-cauda-small

    Acciughe, aglio e olio, questi sono i tre ingredienti della bagna caoda. Va servita in ciotole di terracotta che ne mantengano la giusta temperatura e accompagnata con ortaggi autunnali crudi e cotti. Nessuno dubbio sul fatto che sia un piatto tipico piemontese, ma per quanto riguarda le origini, sono in molti a contendersi la paternità. I cugini francesi, che proprio non sopportano di essere secondi a qualcuno, dicono la loro: la nostra amata bagna caoda deriverebbe dalla loro Anchoiade, nata nella notte dei tempi in Provenza e importata dai mercanti astigiani durante le spedizioni in quella terra per rifornirsi di sale e acciughe, peut-être.

    Ci piace di più la storia che parla dei mercanti francesi, provenienti dalla Provenza e dalle foci del Rodano, che attraversavano le Alpi Marittime, sulle antiche vie del sale, e portavano nel basso Piemonte acciughe sotto sale per avere in cambio vini, carni e ortaggi. Le acciughe sono infatti molto utilizzate nella cucina piemontese, non solo nella bagna caoda, ma anche conservate con il bagnet verd o ross o anche solo adagiate su una falda di peperone arrostito.

    Nei testi storici di gastronomia piemontese purtroppo è difficile trovare tracce della bagna caoda, perché considerata un piatto contadino e riservato alla tavola dei poveri; il suo alto contenuto d’aglio con le temibili conseguenze, la escludevano dalle mense dei nobili. Ma nel mondo contadino non era considerata un piatto della quotidianità, la bagna caoda si preparava nei momenti di convivialità e di festa. Era il piatto della fine della vendemmia, in cui ci si lasciava alle spalle un’annata di lavoro e si poteva perdere tempo a tavola.

    Ancora oggi la bagna caoda ha questa caratteristica, è bello mangiarla in compagnia, spendendo il tempo tra chiacchiere, risate e un buon bicchiere di vino.

    La ricetta della Bagna caoda ha regole precise: la vera anima del piatto è l’aglio ma anche le acciughe devono essere di prima qualità e belle carnose, per mantenere un’elevata qualità è obbligatorio aggiungere solo olio extra vergine d’oliva. Le verdure da intingere sono quelle degli orti piemontesi, immancabili i cardi gobbi di Nizza Monferrato o gli spadoni di Chieri, i peperoni in tutte le versioni, i topinambur, i cavoli di ogni tipo crudi o cotti, i porri, i cipollotti, le patate bollite ecc… Ma anche la polenta fritta e per finire, un uovo crudo da strapazzare nell’ultimo cucchiaio di bagna caoda rimasto nel tegamino di coccio.

    Patrizia Durante

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