“Se rimane a lavorare ancora qualche mese in quella boita, lei ci lascia le penne…”.
Risuonano ancora nelle mie orecchie le parole che il nostro medico di famiglia rivolse a mio padre che – sebbene cardiopatico – aveva trovato occupazione solamente in una piccola fonderia. Grazie all’ aiuto del parroco, mio papà fu assunto come bidello in una scuola media e visse ancora sereno per una trentina d’anni.
Da sempre lavoro e salute sembrano – in questa nostra società – essere in conflitto. La storia dell’Acna di Cengio, negli Anni Settanta, ne è l’esempio lampante. Da un lato il pericolo di perdere il posto di lavoro degli operai, dall’altra la tutela dell’ambiente, del fiume e della Valle Bormida. Quel corso d’acqua era diventato uno scolo puzzolente e color catrame per gli scarichi dell’impresa chimica del Savonese: ci furono manifestazioni, scontri, battaglie durissime che parevano eterne, ma alla fine si trovò la soluzione e ora il Bormida scorre lento, con le acque limpide. Ma quanti morti di cancro si debbono contare in questi decenni…
Sono passati 50 anni e le vicende dell’Eternit di Casale Monferrato o dell’Ilva di Taranto – con le ultime sentenze – dimostrano che nulla è cambiato sotto il sole.
Pare impossibile far coincidere il lavoro con la tutela dell’ambiente e della salute di chi vive attorno alle fabbriche. È incredibile che, nonostante tutte le scoperte scientifiche, non si riesca ad avviare alcuni tipi di produzioni – per fortuna non tutte! – salvaguardando la vita dei cittadini. Siamo andati sulla Luna ma stiamo uccidendo la Terra.
O forse è solo questione di investimenti. Produrre tenendo conto della sicurezza ambientale costa di più? Ma qualcuno ha fatto i conti sui costi del risanamento e soprattutto della salute della gente?
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