L’estate scorsa ho avuto un’accesa discussione con il titolare di un ristorante delle Marche per ritardi e disguidi nella consegna dei piatti ordinati. Il gentile gestore alla fine si è scusato così: “Mi perdoni, ma non troviamo più camerieri. Preferiscono stare a casa e percepire il reddito di cittadinanza piuttosto che venire al lavorare tutte le sere, sabati e domeniche comprese”.
Tra me e me ho concluso – colpevolmente – con la convinzione che queste cose accadessero soltanto nel Centro e nel Sud Italia.
Poi, nei giorni scorsi, ho incontrato il direttore di un’importante Scuola di Alta Cucina nel Torinese che sostanzialmente mi ha ribadito gli stessi concetti: “Quelli che arrivano in questa scuola hanno l’ambizione di diventare famosi chef, al massimo barman, nessuno chiede di imparare la professione di ragazzo di sala o di maître”. Pare che in Italia manchino circa 150mila camerieri
Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, ha ribadito che il settore dell’ospitalità soffre per la mancanza di camerieri e di figure professionali che si occupano della cura e dell’ospitalità dei clienti. “Il primo commento che mi verrebbe da dire – scrive Carlin – ed è anche il più superficiale, è che i giovani non hanno più voglia di lavorare; seguito subito dopo dalla demonizzazione del reddito di cittadinanza, il quale è reo di disincentivare l’occupazione”. Petrini poi, però, precisa con forza, che occorre dare dignità – anche economica – alla professione del cameriere.
E questo tocca tutti noi. Come trattiamo quella persona (ripeto PERSONA) che ci serve al tavolo o dietro al bancone di un bar? Quante volte gli sorridiamo, lo ringraziamo, e apprezziamo il fatto che magari è lì, da ore, in piedi, e spesso è sottopagato? Quante volte gli lasciamo la mancia?
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