L’altra notte, appena mi è giunta la notizia della tragedia di Brandizzo, in un attimo sono ripiombato nell’incubo del 6 dicembre 2007. Una telefonata dei Vigili del Fuoco, una corsa affannosa fino allo stabilimento Thyssen di corso Regina e poi dirette, collegamenti, servizi, inchieste, interviste… anni di dolore vissuto e raccontato per i telegiornali. Stessa trafila per la sciagura di Fossano al Mulino Cordero del luglio 2007 e per tante altre morti bianche.
Non è cambiato nulla. Sono passati 16 anni e si continua a morire sul posto di lavoro. Kevin, Michael, Giuseppe, Giuseppe, Giuseppe: è il triste necrologio delle vittime di Brandizzo. Ma dietro quei nomi ci sono storie, umanità, sogni spezzati, speranze, amori, dolori immensi di parenti e amici. Non si può cancellare tutto dopo pochi giorni e aspettare inchieste e processi che tanto non arriveranno mai a nulla: è un triste rituale che abbiamo già visto milioni di volte.
Non è civile un Paese dove una triste media di tre vite vengono spezzate ogni giorno, dove ogni sessanta secondi qualcuno si fa male (spesso anche gravemente o con invalidità perenni) per guadagnarsi il pane e per mantenere la famiglia.
La sicurezza sul posto di lavoro è ancora considerato un costo, un obbligo, un gravame per le imprese. La cultura della propria e altrui incolumità è lungi da venire. Le leggi ci sono, basterebbe rispettarle. Ma è sufficiente un dato: in provincia di Torino ci sono 4 ispettori del lavoro per circa 200mila aziende. Quindi i controlli non si fanno, o sono evidentemente pochi, e le regole vengono aggirate.
Nessuna illusione: le lacrime di coccodrillo di questi giorni saranno sostituite da altre, alla prossima tragedia.
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